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Quanto costa a imprese e lavoratori l’inefficienza della burocrazia italiana

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Ogni anno oltre 50 miliardi bruciati a causa della disorganizzazione della macchina pubblica. Tanti quanti i nuovi aiuti post-Covid che il governo Conte si appresta a varare P rendete uno Stato che per la cattiva organizzazione della sua burocrazia infligge alle imprese ogni anno una perdita di 55 miliardi, la stessa cifra che il governo si accinge a dare come aiuti post-Covid con il decreto di maggio.

E chiedetegli di sbrigare in poche settimane una mole di pratiche che normalmente smaltisce in non meno di 5 anni. Quale esito possiamo attenderci? L’ esito è che mentre sta per arrivare la nuova ondata di aiuti, quelli decisi a marzo e aprile si sono in gran parte impantanati tra circolari interpretative, pareri e regolamenti diversi tra regione e regione. Se poi alla burocrazia pubblica aggiungiamo quella bancaria, il quadro diventa ancora più fosco. Certo, sia pure con ritardo e dopo l’iniziale tilt del sistema informatico dell’Inps, il 72% delle richieste di bonus da 600 euro è stato soddisfatto. Ma allo stesso tempo, solo il 2,6% dei potenziali beneficiari della cassa integrazione in deroga (i lavoratori più deboli), e il 5,3 di quelli che l’hanno chiesta vi ha potuto accedere. L’Inps l’ha pagata a 67.746 lavoratori, contro una platea potenziale di 2,6 milioni e quasi 1,3 milioni di domande (secondo una stima Uil).

Un’inezia. Ma non è finita, perché anche un altro caposaldo delle manovre fin qui prodotte dal governo – i prestiti da 25 mila euro alle piccole imprese con la garanzia totale dello Stato – si sta rivelando un flop. Su una platea potenziale di 5 milioni 250 mila aziende e partite Iva, le domande che le banche hanno fatto pervenire finora al Fondo di garanzia sono circa 70 mila, l’1,3% del totale. Ma andiamo con ordine. Obiettivo del governo era sostenere i lavoratori fermati dal blocco produttivo e non protetti da alcun ammortizzatore: 2,6 milioni. Per loro è stata reintrodotta la cassa in deroga, e come nella sua versione originaria, è stata confermata la competenza delle Regioni.

Che tuttavia hanno pensato bene di produrre venti regolamentazioni diverse, venti varianti a sorpresa di un iter già di per sé farraginoso: per dare i soldi ai lavoratori, ci vuole prima l’accordo sindacale, poi la domanda alla Regione, che deve fare un decreto e inoltrare la richiesta all’Inps, il quale apre un’istruttoria e decide se autorizzare la cassa in deroga. Il tutto con tempi e regole differenti. Alcune Regioni pretendono la preventiva fruizione delle ferie, altre prevedono commissioni sindacali. Marche, Lazio e Puglia impongono, anche nel caso di aziende con meno di 5 dipendenti, l’invio di informative ai sindacati, e il Piemonte vuole che ci sia nell’ accordo una “dichiarazione di pregiudizio per l’attività aziendale”.

«Insomma, manca una linea unica nazionale – commenta Ivana Veronese, segretaria confederale Uil sembra di assistere a un preoccupante gioco dell’oca che per giunta cambia da regione a regione». E dopo la gimkana regionale, comincia l’istruttoria dell’Inps, i cui dipendenti sono letteralmente soffocati dal lavoro, costretti a fare in poche settimane il lavoro di 5 anni. Il risultato è che finora quasi il 95% di coloro che hanno chiesto la cassa in deroga, non l’ha avuta. Un caso, in particolare, salta subito agli occhi: quello della Lombardia. Su 171 mila richiedenti, solo 840 sono stati pagati, lo 0,5%. Puntuale, è scattato lo scaricabarile tra Regione e Inps. «Chiediamo almeno – dice Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro – che la proroga in arrivo con il decreto di maggio non obblighi a rifare da capo tutte le domande. Sarebbe anche utile velocizzare gli anticipi da parte delle banche, le quali invece oggi chiedono otto documenti diversi per ogni pratica».

Dai lavoratori ai loro datori di lavoro

Di fronte all’ urgenza di dare liquidità ad aziende e partite Iva, il governo si è rivolto alle banche: totale garanzia dello Stato con l’obiettivo di incentivare soprattutto i miniprestiti da 25 mila euro. La legge dice che in questi casi il Fondo di garanzia autorizza il prestito automaticamente e senza valutazione di merito, ma non esclude che questa valutazione venga fatta dalle banche, gran parte delle quali ha proceduto proprio in questa direzione, allungando i tempi e chiedendo alle imprese una pletora di documenti, anche più di venti: dagli ultimi due bilanci ai debiti verso il fisco, dalle moratorie in corso agli affidamenti presso altre banche. Dietro questo percorso a ostacoli, c’ è anche il timore di incorrere in reati connessi con l’eventuale fallimento del debitore.

Tuttavia non è solo questo il motivo, e non poche aziende denunciano il tentativo della propria banca di considerare all’ interno del nuovo prestito anche i vecchi fidi, che finirebbero per giunta per godere della garanzia dello Stato. Insomma, dove non arriva la disorganizzazione di Stato e Regioni, arriva la non sempre casuale burocrazia bancaria.

( Articolo di Marco Ruffolo pubblicato su “Affari e Finanza”)

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