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La vera pestilenza è la burocrazia italica

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Trovate la differenza. Il 25 marzo la Svizzera ha presentato il suo pacchetto di aiuti economici per l’emergenza Coronavirus: 20 miliardi di franchi (18 miliardi di euro). Una settimana dopo più di 15 miliardi erano già stati erogati a 76mila imprese. Il Cura Italia, con i suoi 25 miliardi di interventi promessi, è del 17 marzo. Ad oggi, nessuno ha ancora visto un euro.

Vi siete accorti di qualcosa? Probabilmente no, perché in Italia è normale attendere mesi prima di ricevere un sussidio, fare i conti con il muro di gomma dell’Inps, non riuscire a capire i moduli con cui chiedere un beneficio.

Quasi non ci pesano neanche le code di questi giorni al supermercato, tanto siamo abituati a passare ore e ore davanti ad uno sportello, per poi sentirci dire che il certificato va ritirato in un altro ufficio. Certo, di fronte all’atteggiamento determinato e solenne di Giuseppe Conte qualcuno si era illuso che le cose potessero cambiare, che la gravità della situazione potesse indurre il governo a combattere il vero virus che attanaglia da sempre il Paese, che non si trasmette con le goccioline, ma con la consuetudine, il parassitismo e l’assuefazione.

Il vaccino, purtroppo, non esiste. E la pestilenza permane. «Si volevano accorciare i tempi di risposta, fare provvedimenti urgenti», ha denunciato ieri Innocenzo Megali, coordinatore della Consulta dei consulenti del lavoro del Veneto, «ma la mole di burocrazia è quella ordinaria di sempre. In piena pandemia vengono ancora richiesti accordi o informative sindacali anche per le chiusure aziendali per Covid-19 e ogni istanza necessita di una risposta formale per l’approvazione». Risultato: i lavoratori rimasti in mezzo alla strada si faranno la Pasqua senza Cig. E se continua così pure la Festa della Liberazione. Pensate che gli altri stiano meglio? Sentite questa. Malgrado tutto il caos provocato dall’incapacità dell’Inps di contenere l’assalto degli autonomi per ottenere il bonus, i professionisti iscritti agli ordini erano riusciti a gestire la pratica attraverso le rispettive Casse

previdenziali ed erano pronti a ricevere i 600 euro. Evviva, almeno loro. Peccato che il decreto liquidità andato la scorsa notte in Gazzetta ufficiale (che si preannuncia un altro inferno di cavilli e postille) abbia riscritto la norma del Cura Italia, modificando in corsa i requisiti per la richiesta. «Tutto si ferma incredibilmente», ha denunciato ieri il presidente dell’Ordine dei commercialisti, Massimo Miani, «è la dimostrazione di come finanche in questo frangente drammatico l’Italia soccomba a norme che cambiano nottetempo, farraginose, spesso incomprensibili».

È la burocrazia, bellezza. E se fa uscire gli occhi dalle orbite l’idea che i fondi stanziati e messi a bilancio restino nelle casse dello Stato invece di finire nelle tasche di chi è con l’acqua alla gola, grida letteralmente vendetta quello che sta accadendo in ambito sanitario. La notizia arriva dal Piemonte, ma è facile immaginare che lo stesso problema lo abbiano tutti. Avete presente le difficoltà che il governo ha avuto nel reperire i dispositivi di protezione? Alla fine molte regioni si sono mosse in proprio e, fortunatamente, con successo.

Problema: tutto il materiale sanitario deve essere certificato dall’amministrazione centrale attraverso l’Istituto superiore di sanità. Prima di allora, non si può usare. «Ci siamo trovati da soli mascherine, gel, reagenti e ventilatori», ha tuonato l’assessore alla Ricerca, Matteo Marnati, «e abbiamo creato una filiera di certificazione con le università di ottimo livello, ma le aziende che ci consegnano i prodotti devono comunque essere autorizzate da un ente governativo». Avete capito bene, senza carte bollate medici e pazienti devono restare senza difese e senza strumenti, anche se sono lì pronti, nella stanza accanto…. Alè.

( Articolo di Aandro Iacometti pubblicato su “Libero” )

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