studioramuglia@gmail.com   090 336216

Si fa presto a dire part-time

Condividi

Il part-time è tradizionalmente considerato come uno dei più importanti strumenti di conciliazione lavoro-famiglia, favorendo un equilibrio tra il tempo lavorativo e le responsabilità di cura familiari. Eppure la fruizione di tale istituto incontra spesso numerosi ostacoli, sia dal punto di vista normativo in generale, sia su un piano pratico a causa della resistenza opposta delle aziende. Quanto al primo aspetto, è opportuno notare che la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale non costituisce mai un diritto del lavoratore che, pur richiedendola, non ha la certezza di ottenere l’adozione di un orario di lavoro ridotto. La legge si limita a prevedere una priorità a favore di quei lavoratori che si trovino in una delle seguenti situazioni: convivono con una persona colpita da totale inabilità lavorativa grave per la quale necessita di continua assistenza; hanno il coniuge, figli, genitori affetti da patologie oncologiche o gravi patologie cronico-degenerative ingravescenti; hanno un figlio di età non superiore a 13 anni portatore di handicap. Più di recente sono state introdotte due possibilità di trasformare il rapporto di lavoro in parttime: una, in sostituzione del congedo parentale, riservata ai genitori di minori fino a 12 anni di età; l’altra, posta a favore delle lavoratrici vittime di violenza di genere che siano inserite in percorsi di protezione, a condizione che vi siano posti disponibili in organico. In linea di principio, pertanto, il part-time va concordato tra lavoratore e parte datoriale, contemperando le opposte esigenze. Sul fronte datoriale la ritrosia delle aziende nel concederlo è essenzialmente riconducibile a due ragioni. La prima è legata alla produttività, dal momento che il part-time potrebbe, per esempio, causare inefficienze di coordinamento e comunicazione all’interno delle imprese. Non solo, il rendimento individuale del lavoratore potrebbe subire una riduzione a causa dei cosiddetti “start-up costs” (es. la prima mezz’ora della giornata che si perde per iniziare a “carburare”). Il secondo motivo è determinato dall’aumento dei costi fissi del lavoro, cioè quelli non rapportati al numero di ore lavorate, bensì a quello dei lavoratori (a titolo esemplificativo, i costi di reclutamento e formazione). Per converso, molto spesso accade che imprese in difficoltà costringano di fatto i propri dipendenti a chiedere il part-time al fine di contenere i costi. Sarebbe opportuno dunque un intervento dello Stato che ristabilisca un principio di equità in materia: da un lato, agevolando i dipendenti realmente bisognosi; dall’altro, mettendo le aziende nella condizione di non essere penalizzate dall’utilizzo di lavoro part-time. Per esempio, si potrebbero prevedere sgravi fiscali nei casi di vera necessità, come quelli in cui il lavoratore debba prendersi cura di bambini piccoli o di familiari malati. Gli stessi benefici andrebbero, invece, esclusi quando la conversione non sia chiesta dal lavoratore ma rientri in una strategia aziendale di riduzione dei cost,i per far fronte a delle necessità economiche o produttive contingenti.

( Articolo di Giovanni Pugliese, pubblicato su “Ratio quotidiano” )

Rispondi

Torna su